Esistono molte tipologie di materiali filtranti utilizzabili in impianti di biofiltrazione. Ognuno di questi si può distinguere in base a diverse caratteristiche: natura del materiale, pezzatura, provenienza, porosità, capacità di trattenere l’acqua. Quindi esistono diverse tipologie e, per ognuna di queste, una serie di accorgimenti e requisiti da considerare per far funzionare al meglio il biofiltro.
Tipologie di materiali

Natura dei materiali: che cosa si utilizza nei biofiltri?
Cominciamo dalla domanda più semplice: che tipo di materiale si utilizza nella biofiltrazione? La risposta più semplice potrebbe essere “materiale organico” (anche se recenti tecnologie utilizzano materiali plastici, come nel biotrickling). Sotto questa espressione vanno considerati rami, radici, tronchi triturati e/o cippati, materiale di sopravaglio in processi di compostaggio, cortecce, torba. Quindi, parliamo sia di specie arboree (latifoglie, conifere) che di specie arbustive (erica), ma più in generale di materiali vegetali con caratteristiche adatte a supportare i batteri che degradano i composti odorigeni.
Inoltre, a prescindere dalle caratteristiche, non è da sottovalutare la reperibilità; l’utilizzo di materiali locali abbatte i costi del trasporto e aiuta l’ambiente. In questo senso, alcuni dei materiali sopracitati (fibre di cocco o torba) risultano spesso “fuori mercato”, proprio in virtù del loro prezzo elevato. Questi prodotti, inoltre, non sembrano avere efficienze di abbattimento degli inquinanti più elevati rispetto a quelli tradizionali.
Caratteristiche dei materiali filtranti
Ogni materiale vegetale ha una duplice funzione: da una parte, funge da supporto per la creazione del biofilm, necessario ai batteri per sopravvivere. Dall’altra, fornisce tutta una serie di sostanze organiche utili ai microrganismi per crescere e continuare la degradazione degli odori. Quindi, la scelta del materiale filtrante è indirizzata alla creazione dell’habitat migliore per i batteri; in seguito, vengono considerati altri aspetti, come durata, costo del materiale, reperibilità, dimensioni.
Pezzatura
La pezzatura indica la dimensione media del materiale filtrante. Di solito, tale parametro viene utilizzato per catalogare il legname (in tutte le sue componenti, cioè radici, tondame, ramaglie e cortecce) per dimensione. Essenzialmente, esistono due modalità:
- Attraverso un trituratore si ottiene legname sfibrato longitudinalmente, quindi separato in più parti lungo la direzione delle fibre. Questa operazione, effettuata su tronchi, radici e rami, si chiama frantumazione. La dimensione del prodotto dipende dalla dimensione dei vagli, quindi si può ottenere materiale grossolano (circa 50 cm), intermedio (circa 25 cm) e fine (10 cm).
- Mediante una cippatrice si producono tante piccole scaglie di legna, con dimensioni variabili ma comunque entro pochi centimetri. Il materiale finale ottenuto è il cippato.
Perché occorre distinguere tra i due? Per le diverse destinazioni d’uso dei materiali. Un legno sfibrato grossolano, per esempio, ben si adatta a riempire il primo strato del biofiltro, svolgendo una funzione “portante”, cioè sostenendo il peso del materiale sovrastante senza cedere, ed evitando l’impaccamento, tipico del materiale fine. In questo modo si costruisce un biofiltro ben aerato, senza zone povere di ossigeno. Dall’altra parte, un materiale cippato, o sfibrato di piccola dimensione, permette un perfetto riempimento del biofiltro, occludendo eventuali vie di fuga ed offrendo un’elevata superficie specifica a supporto dei batteri.

Dunque la pezzatura dei materiali deve soddisfare un compromesso: più il materiale è fine, maggiore sarà la superficie attiva su cui crescerà il biofilm microbico. Un materiale troppo fine però non garantisce adeguata porosità e può comportare problemi di anaerobiosi. Al contrario, materiale eccessivamente grossolano non permette di mantenere un’adeguata umidità del letto e favorisce la formazione di vie di fuga dei gas inquinanti attraverso il letto filtrante.
Porosità e contenuto idrico
La porosità del materiale vegetale indica la presenza di vuoti, cavità, fessure, che aumentano la superficie specifica del materiale. Questo aspetto è fondamentale in un’attività biologica, come quella della biofiltrazione, dove sono i batteri a svolgere la degradazione dei composti inquinanti. Maggiori cavità significano infatti maggiori superfici per la creazione del biofilm, cioè di quella pellicola acquosa che ospita i batteri.
I materiali filtranti più porosi sono più leggeri, ma anche meno duraturi. Il rischio è quello di essere costretti a cambiare il materiale biofiltrante dopo poco tempo, dunque bisogna trovare il giusto compromesso. Le radici triturate, per esempio, si prestano idealmente a questa applicazione: a parità di volume, infatti, il legno sfibrato longitudinalmente offre maggiore superficie specifica rispetto al cippato, che è più “liscio” e “regolare”. Materiali più porosi tendono a favorire anche l’adsorbimento, quindi a trattenere più acqua, raggiungendo il valore ideale di contenuto idrico (tra 40% e 60%).
Durabilità e resistenza
L’utilizzo di un materiale più duraturo e resistente abbassa i costi di manutenzione dell’impianto. Infatti, è evidente che una matrice grossolana, strutturante , evita la formazione di zone ad alta densità di impaccamento, e quindi anossiche (prive di ossigeno). L’anossia può portare alla formazione di odori sgradevoli da parte dello stesso biofiltro. Se si usano materiali più compatti e robusti, si evitano anche abbassamenti consistenti del letto filtrante, che, nel tempo, tende ad assestarsi; dunque si evitano costosi rabbocchi (aggiunte) di materiale filtrante.
In termini di resistenza, appare evidente che un materiale come il legno di radici di conifere e latifoglie è più resistente rispetto alle cortecce, alle fibre vegetali di erica, cocco, torba. Inoltre, una pezzatura grossolana tende a consumarsi di meno rispetto ad una fine
Particolarità del legname
il tannino indica una classe di composti polifenolici, prodotti da molte specie vegetali, che riescono ad aumentare la resistenza del legno alla degradazione, specialmente in ambiente umido. Questa sostanza è molto presente nella corteccia di alberi come la quercia, il castagno e l’abete. Viene spesso utilizzato come additivo nei trattamenti dei legni per renderli meno putrescibili, quindi ha potere antibatterico e antifungino. Proprio per queste caratteristiche, non è adatto agli impianti di bioifltrazione.
Le resine vegetali indicano composti terpenici e/o fenolici che vengono prodotte dalle piante, sia spontaneamente sia in seguito a stress. Sono insolubili in acqua e svolgono un ruolo protettivo da insetti, funghi e altre infezioni. Anche questi composti, dunque, dovrebbero essere presenti nel minor quantitativo possibile
Quindi, quale materiale filtrante scegliere?
Le radici degli alberi si prestano sicuramente agli scopi adatti alla biofiltrazione. Innanzitutto sono robuste, perché sostengono il peso degli alberi e resistono agli sforzi del vento. Dunque hanno notevole capacità portante per sostenere il peso degli strati sovrastanti nei biofiltri. Inoltre, per natura sono molto porose e capaci di assorbire notevoli quantità d’acqua, il che le rende ideali per raggiungere il valore di contenuto idrico nel biofiltro tra 40% e 60%. Infine, presentano elevata durabilità nel tempo, basse quantità di resine al loro interno e bassi costi di acquisto, in quanto non son considerate materiale pregiato.

In sintesi

- I biofiltri si basano su materiali filtranti vegetali di svariato tipo (radici, cortecce, fibre vegetali cippate, materiale di sopravaglio).
- Il materiale filtrante deve presentare caratteristiche fisiche di durabilità, resistenza a compressione, porosità, capacità di trattenere acqua nei suoi pori. Possibilmente deve contenere anche basse concentrazioni di tannino, resine ed essere economicamente conveniente.
- Le radici degli alberi offrono caratteristiche ideali per il loto utilizzo nel campo della biofiltrazione.
Si possono usare materiali organici come radici, cortecce, materiale di sopravaglio, fibre vegetali di diversa natura.
La durabilità (tendenza del materiale a non decomporsi nel tempo), la porosità (presenza di elevata superficie specifica), l’assenza di tannini e resine, la capacità portante (capacità di sopportare elevati carichi), la capacità di adsorbire acqua.
La resistenza del materiale è funzione sia delle sue caratteristiche specifiche, sia della tipologia di inquinanti immessi nel biofiltro.
L’utilizzo di radici di conifere e latifoglie assicura resistenza alla compressione e durabilità. Per loro natura le radici hanno elevata superficie specifica e tendono ad assorbire molta acqua. Inoltre hanno un prezzo inferiore rispetto a materiale considerati più pregiati.